"Bisogna tenere duro, tenere duro comunque, con le unghie e con i denti". (D. Pennac)

venerdì 27 aprile 2012

Aspettando Godot.

"Vorremmo sposarci", "vorremmo mettere su famiglia", "vorremmo fare un figlio"... Ma. Ho perso il conto ormai di quante volte ho sentito questi discorsi, e il ma finale era sempre lo stesso: non c'è stabilità, non c'è sicurezza, come si fa a fare un figlio se poi non lo puoi mantenere, eccetera. Mi ci sto scontrando in prima persona, in questo periodo. Hai trovato la persona che senti davvero tua, e la frustrazione del non riuscire a far combaciare sogni e realtà è enorme.
Ho deciso di studiare psicologia a 14 anni, dopo un incontro sui disturbi alimentari organizzato dalla mia scuola media. Non mi ricordo neanche come si chiamava, la psicologa che venne a parlarci, ma mi ricordo quanto mi colpì il suo lavoro. E da allora, ho passato i successivi 5 anni di liceo a sognare quella facoltà. Non mi sono mai pentita della mia scelta. Non ne ho dubitato neanche quando un professore, il primo anno, ci ha accolto mettendoci in guardia: "se sperate di guadagnare, avete sbagliato strada. Per quello, al massimo, psicologia del lavoro". Ma non è così facile smorzare l'entusiasmo che cresce dentro da quando sei ragazzina. Adesso mi ritrovo con la laurea che ho sempre voluto, ma senza un lavoro che abbia a che fare con questa. E senza grandi prospettive di cambiamento, per di più. "C'è la crisi", "non c'è lavoro per nessuno", sì, lo so. Ma raramente questo mi consola. Tralasciando i problemi pratici, perchè sono fortunata e ho chi mi supporta, rimane l'amarezza e la frustrazione. E soprattutto, lo smarrimento. La domanda "dove sto andando?" mi rimbomba in mente ogni giorno, scorrendo offerte di lavoro che non sono per me, e che infatti non portano mai da nessuna parte. Ho investito sei anni della mia vita nella preparazione, rendendomi conto man mano di quanto poi poco servisse, in questo campo, prendere 30 agli esami, se poi non hai la possibilità di toccare con mano quello che studi. E adesso, dopo un anno di tirocinio difficile ma bellissimo, mi sento come una bambina a cui hanno fatto assaggiare un dolce e poi l'hanno tolto.
Chiamano i ragazzi della mia età bamboccioni, ci descrivono come mammoni, gente che non ha il coraggio di uscire dalla casa dei genitori. In realtà, io non so cosa darei in questo momento per avere la possibilità di mettermi alla prova e di mettere in pratica quel poco che credo di aver imparato, rendendomi indipendente; ma sembra che non ce ne sia la possibilità. E questo, ovviamente, si ripercuote sulle scelte personali: non puoi comprare una casa, figurarsi se puoi pensare di mettere al mondo un figlio, e ti dici "aspettiamo, dovranno migliorare le cose". E quindi rimani in questo limbo forzato, continui a mandare curriculum che non ottengono risposta, e aspetti, chiedendoti se fai abbastanza, non avendo più idee su che cosa fare ancora, e sentendo crescere ancora di più la frustrazione. D'altra parte, fa sentire un po' meno soli sapere che non è un problema solo mio, che altre migliaia (milioni?) di ragazzi sono nella stessa situazione. Certo, aumenta anche la competizione, ma tant'è.
E allora, continuiamo così. Aspettiamo Godot.


martedì 17 aprile 2012

Non buttiamoci giù

Che cosa porta una persona a decidere che non c'è più speranza? Quale meccanismo profondo e delicato fa sì che qualcuno arrivi a pensare che la migliore, o forse l'unica, soluzione possibile sia quella di togliersi la vita? Una volta, a lezione, un professore ci disse che il suicidio può essere visto come tentativo estremo di indurre sensi di colpa nell'altro, in chi ti sta accanto. In pratica, lo si può leggere come un'accusa del tipo: "non hai saputo aiutarmi, ho dovuto fare da me", oltre che attraverso la chiave più classica della disperata ricerca di attenzione.
Qualunque sia il motivo scatenante, è difficilmente comprensibile la disperazione profonda che deve provare una persona per arrivare anche solo a formulare un pensiero che va contro un istinto molto ben radicato, quello della sopravvivenza. Solitamente, però, alla base c'è un disturbo profondo: spesso si pensa a una depressione, anche se non è detto; molti altri disturbi mentali hanno correlazioni forti con l'ideazione suicidaria (e, di conseguenza, quasi sempre anche con l'atto vero e proprio): il disturbo borderline di personalità, per esempio, o il disturbo bipolare.
Ultimamente, però, ho assistito a un'escalation di notizie riguardanti i suicidi che sembrano avere poco o nulla a che fare con queste categorie diagnostiche. Sembra, piuttosto, che la disperazione scatenante il tutto nasca da un quadro drammaticamente più semplice e sotto gli occhi di tutti: la crisi economica.
Ammetto che questo mi fa molta più paura. Per un motivo molto semplice: lo sento molto più vicino, come problema. Quando studi tutti i disturbi mentali, viene automatico vedere sintomi un po' ovunque, salvo poi recuperare lucidità e realizzare che bisogna essere molto cauti nel formulare una diagnosi vera e propria di un qualunque disturbo. In ogni caso, a meno che uno non abbia conoscenza diretta di persone con problemi del genere (e purtroppo sono sempre più di quanto pensiamo, e spesso anche più vicini di quanto crediamo...), ci si crea -o almeno, a me è capitato così- una sorta di barriera mentale con la quale proteggersi dall'idea che questa possibilità ci tocchi. Ma quando senti di uno, due, dieci persone che si tolgono la vita (quasi sempre lasciando parenti, figli, amici) per la crisi, per la disoccupazione, perchè non si trova un lavoro che sia uno per arrivare alla fine del mese, le domande ti assalgono, e un po' d'ansia si fa sentire. Perchè ti senti simile a loro più che a chiunque altro, perchè a un certo punto non aiuta più per niente il pensiero che "non è un problema solo mio, c'è la crisi", anzi fa arrabbiare, o butta giù, ancora di più. E pensi che magari queste persone erano sole, non avevano quella che viene spesso chiamata la rete di sostegno, non apevano a chi potersi affidare per un aiuto o anche solo un consiglio o uno sfogo. Ma non è sempre così. Queste persone spesso sono padri e madri di famiglia, che hanno amici e parenti, ma che non hanno trovato comunque un'alternativa a un gesto così disperato. E automaticamente, oltre a pensare alla loro diperazione, mi chiedo che cosa farà chi si trova senza un marito, una moglie, un genitore. Oltre al dolore, poi anche alla rabbia e al senso di colpa, si troveranno a fronteggiare problemi enormi che altri non hanno saputo come risolvere.
Senza voler scadere nel facile populismo, capisco che chi cerca di governare questo paese abbia molte altre cose a cui pensare, ma credo che abbia ragione chi parla di allarme sociale, pur tenendo presente l'effetto emulazione che provocano queste notizie.
Se ci sono ragazzi di 25, 26, 27 anni, totalmente disillusi e senza più fiducia nel futuro, loro che magari possono ancora contare sull'aiuto dei genitori, loro che non hanno ancora una famiglia da mantenere, ma che vorrebbero "solo" poter crearsene una, non so immaginarmi l'angoscia che può scatenarsi in chi la famiglia da mantenere ce l'ha, e non sa più come fare.
Voglio credere che ci sia una soluzione alla situazione in cui ci troviamo; ma credo che si debba fare qualcosa, molto più di quello che si sta facendo, e possibilmente in fretta.