"Bisogna tenere duro, tenere duro comunque, con le unghie e con i denti". (D. Pennac)

martedì 28 agosto 2012

Pensieri di un pomeriggio di fine estate

Foto delle vacanze, i soliti servizi dei tg sulle temperature che si abbassano, status che trasudano malinconia nel rientro in città e al lavoro. Ci sono tutti gli ingredienti per decretare l'ormai imminente fine dell'estate.
Con la differenza, per me, che quest'anno non mi mancherà granchè.
Un annetto fa salutavo un'amica che partiva, pensando che presto sarei andata a trovarla.
Un annetto fa mi trasferivo in una nuova casa, in una nuova città, in una nuova vita, piena di speranze e di paure, emozionata, stranita al massimo.
Un anno fa due amici si sposavano, e oggi hanno un bimbo.
In quest'anno si sono viste certezze che hanno scricchiolato e poi sono crollate; altre che si sono consolidate proprio grazie alle difficoltà; amicizie nuove che mi hanno stupito e tenuto a galla; amicizie di lunga data che si sono confermate quello che sono sempre state, indispensabili, nonostante la lontananza; una palla di pelo accolta in casa del tutto all'improvviso, la decisione migliore che potessimo prendere, la prima, vera decisione presa in due.
Per la prima volta la fine dell'estate porta con sè pochissima malinconia, forse per la voglia di cambiare le cose, e per la speranza che l'autunno me ne dia la possibilità. Ricominciare a studiare, farlo con un'amica, sapendo che è un altro passo verso quello che vorrei, prima o poi, riuscire a fare.
E ritrovarsi a pensare ad altre coppie di amici che realizzano i loro sogni, che progettano una vita insieme, che mi fanno pensare "è per persone come loro che continuo ad essere fiduciosa".
Oggi più che mai è tutto nebulosissimo. Ma, almeno per oggi, voglio godermi quella piccolissima dose di ottimismo che ancora c'è in me, allungare la mano, fare due carezze al gatto che dorme di fianco a me e pensare solo al suono delle sue fusa.



venerdì 6 luglio 2012

"Se ti abbraccio non aver paura"

Lunga assenza dal blog, ma continuo a far tesoro di uno dei tanti insegnamenti di mia mamma: se non hai niente di interessante da dire, non parlare. E quindi... Però ho finito questo libro, che mi è piacuto un bel po' e che volevo condividere. Come la maggior parte delle mie letture non tratta un argomento leggero, ma che io abbia "un elevato peso specifico" è noto ai più. Ho letto l'ultima pagina qualche giorno fa, e ho avuto bisogno di un momento per lasciarlo sedimentare, per separarmi dalla storia e dai protagonisti, soprattutto perchè è una storia vera. Magari un po' romanzata, ma vera.
Come tanti, ho visto il servizio su Andrea alle Iene, qualche mese fa. Pare che a metà servizio io fossi a 20 cm dalla tv con gli occhi lucidi e un sorriso da ebete: in effetti, la storia di questo ragazzo e di suo padre mi aveva coinvolto moltissimo, forse perchè mi ricordava in tanti suoi comportamenti un ragazzo che ho conosciuto un annetto fa durante il tirocinio. Insomma, alla fine ho trovato il libro su uno scaffale in un negozio e mi sono decisa a comprarlo. La trama è sostanzialmente il racconto di un viaggio attraverso l'America di un padre col figlio diciottenne, a cui all'età di 3 anni è stato diagnosticato l'autismo. La parte interessante, però, credo che siano più che altro i dettagli, i frammenti di vita quotidiana che emergono dalle varie vicende e il rapporto tra Andrea e suo padre.
Di questa patologia non si sa granchè, io per prima ne so davvero poco. Quel che ho potuto capire, più che altro dalla conoscenza diretta di alcune persone con questa caratteristica, è che il termine esatto, ovvero "spettro dell'autismo", è perfettamente calzante: la varietà di sintomi e di manifestazioni esteriori è davvero grande, tant'è che alcuni comportamenti di Andrea mi ricordano quelli di un ragazzo psicotico più che quelli a cui siamo abituati a pensare. Temo che il film Rain Man abbia una parte di responsabilità, in questo: sentendo la parola autistico la maggior parte di noi pensa in automatico a Dustin Hoffman e alla scena degli stuzzicadenti nel bar. Ecco, non è esattamente così, o meglio, non è così per tutti. All'interno dello spettro autistico rientrano una gran quantità di fattori, tanto che -a voler esagerare- si potrebbe dire che ne facciamo parte un po' tutti, in qualche modo; anche per questo formulare una diagnosi non è mai facile.
La cosa che mi ha colpito di più, comunque, della storia di Andrea sono stati tutti gli interrogativi messi sul tavolo dal padre, Franco. Interrogativi che tendiamo spesso a non porci, concentrandoci sul cercare una diagnosi prima e una cura poi, ma che sono in realtà di estrema importanza.
La sessualità, le manifestazioni di affetto: molti medici hanno detto a Franco che suo figlio, come la maggior parte dei soggetti affetti da autismo, non proverà grande interesse per questa sfera. In realtà, per Andrea non è esattamente così: lo esterna a modo suo, ma l'interesse c'è, cosicchè il padre si trova a dover affrontare un argomento delicato a prescindere, cercando di trovare le parole e i gesti adatti. Perchè, giustamente, ignorare la questione sarebbe inutile se non dannoso.
L'altra grande questione che mi ha turbato è stato l'enorme punto interrogativo sul futuro. Franco si domanda cosa succederà quando lui e la mamma di Andrea non ci saranno più, o non saranno comunque più in grado di stargli dietro. Nell'esperienza che ho avuto con i vari tipi di disabilità, questo è sicuramente il comune denominatore: la paura che prende quando si comincia a immaginare quali prospettive ci possono essere per una persona che dipende interamente da noi, e che non ha prospettive di miglioramento, deve essere davvero profonda. E soluzioni facili, come sempre in questi casi, non ce ne sono.
Questo libro non dà risposte, più che altro a me ha fatto sorgere ancora nuove domande. Ma credo che sia la caratteristica che lo distingue da una favola. Andrea e Franco continuano la loro vita, con i loro rituali e i loro momenti duri: Andrea continua a ridurre in pezzetti microscopici i fogli di carta, quando è nervoso e non si sente a suo agio, e a toccare le pance agli sconosciuti incontrati per caso. Ma ti fa anche capire che oltre la difficoltà di comunicare in modo canonico, c'è un mondo da scoprire, se ci si prova.
"Provo ad impegnare mia mente ogni giorno ma lotto invano mi dispero per mio autismo
Aiuto chiedo"
"Sono un uomo imprigionato nei pensieri di libertà.
Andrea vuole guarire.
Ciao"

domenica 27 maggio 2012

Gli imprevisti e il lusso del potervi far fronte.

Non so neanch'io qual è stato il primo pensiero che mi è passato per la mente quando ho letto le parole che aveva pronunciato Elsa Fornero riguardo all'assistenza alle persone disabili. Già partire dal presupposto difensivo che "non si può pensare che lo Stato sia in grado di fornire tutto in termini di trasferimenti e servizi" non mi pare un gran bell'inizio. Voglio dire, fossimo negli Stati Uniti, dove la sanità è privata, potrei vedere una logica in questo discorso, ma il ministro mi perdonerà se qui io questa logica proprio non la vedo. Chi dovrebbe essere in grado, allora, di aiutarci? Continua poi con una dichiarazione che mi lascia assai perplessa: "Sia il privato che lavora per il profitto sia il volontariato no profit sono necessari per superare i vincoli di risorse. Il privato, in più del pubblico, possiede anche la creatività per innovare e per creare prodotti che aiutino i disabili". Esattamente, vorrei capire da dove ha preso questa convinzione, pesante come una pietra tombale peraltro. In base a quali criteri il privato ha più creatività del pubblico? Risorse, forse sì, ma creatività? Chi stabilisce quanto e come un'organizzazione sia creativa?
Oltre a tutto questo, il mio pensiero è corso istintivamente all'associazione di cui ho fatto parte per tanti anni, "Gli amici di Luca", che ha trovato il modo di affiancare, con una sinergia incredibile, volontari e dipendenti (in parte pubblici, sotto l'ASL di Bologna, in parte dell'associazione), in un progetto che -per quanto sembrasse ambizioso all'inizio- ha saputo crescere e aiutare decine e decine di famiglie, ovvero la Casa dei Risvegli. E, da volontaria, credo che -senza nulla togliere alla passione di chi ci lavora ogni giorno- chi decide di dedicare parte del proprio tempo libero ad attività come queste, regali una forza e una voglia di fare che diventano risorse insostituibili, spesso proprio perchè slegate dall'ottica del guadagno a sè stante.
Al di là di queste considerazioni, puramente personali, mi trovo comunque a riflettere su tutte quelle famiglie che si prendono cura di un parente con disabilità ed esigenze particolari, che spesso richiedono una quantità di tempo e denaro non sempre disponibili. Secondo la logica del Ministro, a chi dovrebbero rivoglersi? "il ruolo pubblico dovrebbe dare credibilità inserendosi nella relazione tra la persona e il mondo assicurativo". In sostanza, o ci si può permettere una copertura assicurativa o niente, lo Stato non può più permettersi di spendere soldi in questi progetti, è questo il succo del discorso?
Ho cercato un'altra chiave di lettura, ma non l'ho trovata, anzi; mi sono sembrate parole terribilmente simili, come impatto, al decreto approvato da Monti giusto un paio di giorni prima del terremoto in Emilia, suonato come una drammatica previsione: "In caso di terremoto, alluvione, o di ogni altra catastrofe naturale, lo Stato non pagherà più i danni ai cittadini. Che, dunque, per vedere la casa o l'azienda ricostruita, avranno una sola strada: ricorrere all'assicurazione 'volontaria' ".
Due notizie diverse sotto tanti aspetti, ma accomunate dalla mia impressione di fondo che neanche questo governo sia in realtà minimamente interessato a chi vive in questo paese. Persone normali, con piccole e grandi tragedie quotidiane, che si sono trovate davanti a degli imprevisti, nella loro vita, e che ora non sanno più come far fronte alla richiesta di un altro piccolo sacrificio. Perchè non ce n'è più, da dare, e non voglio credere che la possibilità di reagire e poter affrontare la disabilità (o le catastrofi) sia diventato un lusso per pochi.


venerdì 27 aprile 2012

Aspettando Godot.

"Vorremmo sposarci", "vorremmo mettere su famiglia", "vorremmo fare un figlio"... Ma. Ho perso il conto ormai di quante volte ho sentito questi discorsi, e il ma finale era sempre lo stesso: non c'è stabilità, non c'è sicurezza, come si fa a fare un figlio se poi non lo puoi mantenere, eccetera. Mi ci sto scontrando in prima persona, in questo periodo. Hai trovato la persona che senti davvero tua, e la frustrazione del non riuscire a far combaciare sogni e realtà è enorme.
Ho deciso di studiare psicologia a 14 anni, dopo un incontro sui disturbi alimentari organizzato dalla mia scuola media. Non mi ricordo neanche come si chiamava, la psicologa che venne a parlarci, ma mi ricordo quanto mi colpì il suo lavoro. E da allora, ho passato i successivi 5 anni di liceo a sognare quella facoltà. Non mi sono mai pentita della mia scelta. Non ne ho dubitato neanche quando un professore, il primo anno, ci ha accolto mettendoci in guardia: "se sperate di guadagnare, avete sbagliato strada. Per quello, al massimo, psicologia del lavoro". Ma non è così facile smorzare l'entusiasmo che cresce dentro da quando sei ragazzina. Adesso mi ritrovo con la laurea che ho sempre voluto, ma senza un lavoro che abbia a che fare con questa. E senza grandi prospettive di cambiamento, per di più. "C'è la crisi", "non c'è lavoro per nessuno", sì, lo so. Ma raramente questo mi consola. Tralasciando i problemi pratici, perchè sono fortunata e ho chi mi supporta, rimane l'amarezza e la frustrazione. E soprattutto, lo smarrimento. La domanda "dove sto andando?" mi rimbomba in mente ogni giorno, scorrendo offerte di lavoro che non sono per me, e che infatti non portano mai da nessuna parte. Ho investito sei anni della mia vita nella preparazione, rendendomi conto man mano di quanto poi poco servisse, in questo campo, prendere 30 agli esami, se poi non hai la possibilità di toccare con mano quello che studi. E adesso, dopo un anno di tirocinio difficile ma bellissimo, mi sento come una bambina a cui hanno fatto assaggiare un dolce e poi l'hanno tolto.
Chiamano i ragazzi della mia età bamboccioni, ci descrivono come mammoni, gente che non ha il coraggio di uscire dalla casa dei genitori. In realtà, io non so cosa darei in questo momento per avere la possibilità di mettermi alla prova e di mettere in pratica quel poco che credo di aver imparato, rendendomi indipendente; ma sembra che non ce ne sia la possibilità. E questo, ovviamente, si ripercuote sulle scelte personali: non puoi comprare una casa, figurarsi se puoi pensare di mettere al mondo un figlio, e ti dici "aspettiamo, dovranno migliorare le cose". E quindi rimani in questo limbo forzato, continui a mandare curriculum che non ottengono risposta, e aspetti, chiedendoti se fai abbastanza, non avendo più idee su che cosa fare ancora, e sentendo crescere ancora di più la frustrazione. D'altra parte, fa sentire un po' meno soli sapere che non è un problema solo mio, che altre migliaia (milioni?) di ragazzi sono nella stessa situazione. Certo, aumenta anche la competizione, ma tant'è.
E allora, continuiamo così. Aspettiamo Godot.


martedì 17 aprile 2012

Non buttiamoci giù

Che cosa porta una persona a decidere che non c'è più speranza? Quale meccanismo profondo e delicato fa sì che qualcuno arrivi a pensare che la migliore, o forse l'unica, soluzione possibile sia quella di togliersi la vita? Una volta, a lezione, un professore ci disse che il suicidio può essere visto come tentativo estremo di indurre sensi di colpa nell'altro, in chi ti sta accanto. In pratica, lo si può leggere come un'accusa del tipo: "non hai saputo aiutarmi, ho dovuto fare da me", oltre che attraverso la chiave più classica della disperata ricerca di attenzione.
Qualunque sia il motivo scatenante, è difficilmente comprensibile la disperazione profonda che deve provare una persona per arrivare anche solo a formulare un pensiero che va contro un istinto molto ben radicato, quello della sopravvivenza. Solitamente, però, alla base c'è un disturbo profondo: spesso si pensa a una depressione, anche se non è detto; molti altri disturbi mentali hanno correlazioni forti con l'ideazione suicidaria (e, di conseguenza, quasi sempre anche con l'atto vero e proprio): il disturbo borderline di personalità, per esempio, o il disturbo bipolare.
Ultimamente, però, ho assistito a un'escalation di notizie riguardanti i suicidi che sembrano avere poco o nulla a che fare con queste categorie diagnostiche. Sembra, piuttosto, che la disperazione scatenante il tutto nasca da un quadro drammaticamente più semplice e sotto gli occhi di tutti: la crisi economica.
Ammetto che questo mi fa molta più paura. Per un motivo molto semplice: lo sento molto più vicino, come problema. Quando studi tutti i disturbi mentali, viene automatico vedere sintomi un po' ovunque, salvo poi recuperare lucidità e realizzare che bisogna essere molto cauti nel formulare una diagnosi vera e propria di un qualunque disturbo. In ogni caso, a meno che uno non abbia conoscenza diretta di persone con problemi del genere (e purtroppo sono sempre più di quanto pensiamo, e spesso anche più vicini di quanto crediamo...), ci si crea -o almeno, a me è capitato così- una sorta di barriera mentale con la quale proteggersi dall'idea che questa possibilità ci tocchi. Ma quando senti di uno, due, dieci persone che si tolgono la vita (quasi sempre lasciando parenti, figli, amici) per la crisi, per la disoccupazione, perchè non si trova un lavoro che sia uno per arrivare alla fine del mese, le domande ti assalgono, e un po' d'ansia si fa sentire. Perchè ti senti simile a loro più che a chiunque altro, perchè a un certo punto non aiuta più per niente il pensiero che "non è un problema solo mio, c'è la crisi", anzi fa arrabbiare, o butta giù, ancora di più. E pensi che magari queste persone erano sole, non avevano quella che viene spesso chiamata la rete di sostegno, non apevano a chi potersi affidare per un aiuto o anche solo un consiglio o uno sfogo. Ma non è sempre così. Queste persone spesso sono padri e madri di famiglia, che hanno amici e parenti, ma che non hanno trovato comunque un'alternativa a un gesto così disperato. E automaticamente, oltre a pensare alla loro diperazione, mi chiedo che cosa farà chi si trova senza un marito, una moglie, un genitore. Oltre al dolore, poi anche alla rabbia e al senso di colpa, si troveranno a fronteggiare problemi enormi che altri non hanno saputo come risolvere.
Senza voler scadere nel facile populismo, capisco che chi cerca di governare questo paese abbia molte altre cose a cui pensare, ma credo che abbia ragione chi parla di allarme sociale, pur tenendo presente l'effetto emulazione che provocano queste notizie.
Se ci sono ragazzi di 25, 26, 27 anni, totalmente disillusi e senza più fiducia nel futuro, loro che magari possono ancora contare sull'aiuto dei genitori, loro che non hanno ancora una famiglia da mantenere, ma che vorrebbero "solo" poter crearsene una, non so immaginarmi l'angoscia che può scatenarsi in chi la famiglia da mantenere ce l'ha, e non sa più come fare.
Voglio credere che ci sia una soluzione alla situazione in cui ci troviamo; ma credo che si debba fare qualcosa, molto più di quello che si sta facendo, e possibilmente in fretta.


sabato 24 marzo 2012

L'ostinazione a guardare la tv (e tutte le perplessità che seguono)

L'altra sera, come succede sempre più di frequente, facendo un giro dei canali sono arrivata alla conclusione che l'unica cosa che meritava, in tv, era "Le Iene". Tralasciando i siparietti dei presentatori (decisamente trascurabili), devo dire che i servizi che mandano in onda valgono spesso la pena. Uno di questi, particolarmente crudo, riguardava la scoperta di un signore 70enne che adescava ragazzine con sigarette e ricariche telefoniche in cambio, usando un eufemismo, di effusioni e tenerezze. Alla fine, messo all'angolo dall'inviata/finta quindicenne (e a lei va, peraltro, la mia ammirazione per il sangue freddo), ha accettato di farsi accompagnare al centro di igiene mentale più vicino e parlare con qualcuno. Magari -anzi, il mio pessimismo dice probabilmente- non ci tornerà più e il suo gesto è stato dovuto solo alle telecamere, ma non si sa mai. Almeno un primo passo è stato fatto. Ora, vedendo questo servizio, ho cominciato a ragionare su tante cose. La prima è stata il chiedermi che educazione possono aver ricevuto delle ragazzine che a quattordici, quindici anni accettano di avere a che fare con un personaggio chiaramente disturbato (le telefonate mandate in onda riportavano delle frasi di quest'uomo che, se pensiamo che erano dirette a una quindicenne, sono da pelle d'oca) in cambio di 10 euro, di una ricarica o di un pacchetto di sigarette. Sappiamo benissimo tutti che quella è l'età in cui si smette di dare ascolto ai genitori, in cui quello che dicono loro è a prescindere un'idiozia, ma pur avendo pensato anche io queste cose, non mi sarei mai sognata di mettermi in situazioni simili. Sinceramente, non saprei dire come mi è stato insegnato che "non si parla con gli sconosciuti", "non si accettano caramelle" e simili, ma non ero mica l'unica a sapere queste cose, da bambina. E allora, che cos'è successo? Non avendo ancora figli vado solo a immaginazione, e non so quanto possa essere realmente difficile educare un bambino. Ma, insomma, questo mi sembra l'ABC, mi sembra che richiami paure ancestrali, soprattutto nella donna, come quella del vedersi portar via il cucciolo. E invece vedo queste ragazzine senza età, vestite come ventenni ma che in faccia sono ancora bambine, che cadono in trappole del genere, e mi viene voglia di andare dai genitori e chieder loro "ma voi dove eravate?".
La seconda cosa che mi ha fatto riflettere, invece, riguarda direttamente quello che ci viene propinato dalla televisione. Mercoledì scorso, per esempio, spinta dalla curiosità ho ceduto e ho guardato "Fratello maggiore". Ecco, se Le Iene sono a un estremo, o quasi, sulla linea della qualità dei programmi televisivi, sicuramente questa roba è all'altro. Si era parlato di reality (primo punto a sfavore), di format copiato da altri paesi (secondo punto a sfavore), condotto da un pugile reinventatosi grillo parlante che avrebbe aiutato due famiglie con adolescenti problematici a riportarli sulla retta via. Ancora una volta, non ce l'ho fatta ad arrivare in fondo alla puntata. Quello che ho visto è stato un tale girotondo di frasi fatte (e recitate male, perchè a me sembrava proprio tutto finto...), che anche le tre cose giuste che potevano essere finite per caso dentro i loro discorsi finivano per perdersi. E poi, i lieto fine forzatissimi: il diciottenne che picchia la madre e spacca i mobili in casa in pochi giorni si è trasformato in ragazzo modello che riconosce il nuovo marito della mamma e il fratellino come parte integrante della famiglia. La diciannovenne viziata e semi alcolizzata, il cui unico pensiero è fare la modella, diventa una figlia devota (con tanto di lacrime, of course), e il passo è ovviamente brevissimo. Saranno stati i muscoli del pugile, o le sessioni forzate in palestra a sudare (perchè "con la fatica si tirano fuori tutti i problemi"). Fatto sta che a me il tutto ha lasciato grandemente perplessa. L'anno scorso ho fatto sei mesi di tirocinio in una struttura che accoglie ragazzi con segnalazioni da parte dei servizi sociali, per loro o per le loro famiglie. E posso assicurare che in nessun caso si sono lasciati avvicinare con questa facilità da uno sconosciuto per parlare di sè, dei loro problemi e cambiare modo di fare. La strada da fare è molto, molto più lunga, dolorosa e difficile, fatta di passi avanti e di tanti, tantissimi passi indietro. E ridurre il tutto a una messa in scena così superficiale mi suona sbagliato, oltre che controproducente. Queste situazioni ci sono, e può darsi che siano anche più diffuse di quanto crediamo. Ma portare a credere che il mezzo migliore per risolverle sia rivolgersi alla tv mi dà un quadro abbastanza chiaro della nostra epoca. Provo sulla mia pella la scarsa voglia di investire nei servizi di supporto di questo tipo, così che lavorarci diventa un'impresa disperata. Certo che se poi si pensa che, avendo un problema, la cosa migliore sia parlarne in un programma tv piuttosto che coinvolgere un esperto, anche se non famoso, siamo in un vicolo cieco. Ma io non mi rassegno, e per me la soluzione ai nostri problemi continuerà a non essere in un programma televisivo, che sia Striscia la notizia, Le Iene, o chi per loro.


giovedì 15 marzo 2012

Curve, modelle, e la tristezza da manichino

Qualche giorno fa LaStampa.it pubblicava un articolo secondo cui, attraverso moda e cinema, si stia cambiando rotta: tornano in voga le donne formose (http://www3.lastampa.it/moda/sezioni/news/articolo/lstp/445806/). Anche stavolta, mi si affollano in mente un po' di cose.
La prima è una domanda che mi pongo da sempre, ogni volta che leggo, parlo o scrivo dello strapotere delle case d'alta moda e dell'effetto che hanno sulla mentalità comune. Se ci fate caso, quando si parla di modelle molto magre (evito apposta il "troppo") e si chiede un parere a un ragazzo, quasi sempre ci si sente rispondere che non piacciono, che è bello avere qualcosa da abbracciare senza paura che si rompa, che alcune di loro fanno addirittura senso. E sono convinta che, nella vita di tutti i giorni e applicato a ragazze, per così dire, normali, sia vero. La domanda che mi sorge spontanea allora è: perchè continuare a far sfilare ragazze che in primo luogo non rappresentano la donna media (parliamone, molte di quelle in passerella hanno delle cosce larghe quanto il mio braccio...), e che -a quanto dicono tanti ragazzi- non evocano neanche una gran sensualità? Ci dovranno pur guadagnare qualcosa questi stilisti, quello che non mi spiego è che cosa. In più, a voler ben vedere, spesso non è solo la taglia il punto cruciale, quanto il taglio di questi abiti. Abiti che addosso a persone che portano più di una 42 starebbero da schifo. Allora, mi dico, non è solo una scelta di scena, ma anche di stile vero e proprio. Si sceglie di dedicarsi a ragazze magre, punto.
In secondo luogo, per quanto sia contenta che se ne parli, mi dispiace che molto spesso si finisca per ridurre il discorso a un binomio grasso-magro. Io conosco molte ragazze che definisco belle, senza esitazioni, e che uno stilista non definirebbe mai magre. E quindi? E' difficile spiegare l'irritazione che provo quando sento discorsi del genere "è una ragazza molto bella, anche se con qualche chilo in più". Anche-se. E pensare che molte ragazze sono belle proprio per quei corpi morbidi, no? Probabilmente, con 20 chili in meno sarebbero del tutto snaturate e sembrerebbero malate. Ma sembra che considerare bella una ragazza a prescindere dalla taglia sia ormai un'impresa disperata. Mi viene in mente una frase che girava su Facebook qualche tempo fa, che pressappoco diceva "ai tempi di Botticelli sarei stata considerata bellissima". Che tristezza. Magari il povero Sandro si sta rigirando nella tomba a vedere quali canoni estetici sono di moda oggi.
Scherzi a parte, ho sempre pensato che le case di moda e, nel loro piccolo, anche i marchi più accessibili -soprattutto alle ragazze più giovani- non si rendano conto fino in fondo della responsabilità che hanno sulle loro spalle nella formazione di un'immagine corporea sana per una donna. Io ricordo più di un'occasione in cui, partita con l'idea di comprarmi qualcosa, ho sentito il morale scendere sotto i piedi alla vista di vestiti chiaramente pensati per un altro tipo di forme, senza grandi alternative, e manichini ridicolmente magri (anche se, fateci caso: entrando in un negozio, 99 volte su 100 gli abiti addosso ai manichini sono tirati sulla schiena e fermati con spille da balia, per farli sembrare della taglia giusta. Non sarà che, davvero, quei manichini non rappresentano neanche le taglie più piccole in commercio?). E ho bene impressa la sensazione, del tutto irrazionale ma non per questo meno pericolosa, del "allora sono sbagliata io". Mi è sempre andata bene, intanto perchè di solito quel pensiero dura poco, e poi perchè ho sempre avuto intorno persone che mi scrollavano di dosso convinzioni insensate. Ma non succede sempre così. E quando certi pensieri trovano terreno fertile, si fermano lì e a volte crescono rigogliosi. Con buona pace di tutti i Botticelli, le Sophia Loren e le Marylin di questo mondo.


mercoledì 14 marzo 2012

Aveva capito tutto Picasso...

Ho scoperto solo da poco il blog "Invisibili" del Corriere (http://invisibili.corriere.it/), e sto cercando di recuperare il tempo perduto, dato che mi sembra che ne valga proprio la pena. Oggi, per esempio, hanno pubblicato un pezzo su un tema che mi sembra riduttivo definire delicato, ovvero l'amore e la sessualità in coppie con disabilità.
Cinque anni fa ho conosciuto l'associazione "Gli amici di Luca", che si occupa di persone con esiti di coma e cerebrolesioni acquisite, e la "Casa dei risvegli Luca de Nigris" di Bologna. Il primo impatto è stato forte, e non sarebbe potuto essere altrimenti: le domande su come approcciarsi a queste persone, la sensazione di camminare sulle uova. Ma molto in fretta mi sono lasciata andare all'istinto, rendendomi conto che la chiave era semplicemente cambiare il mio punto di vista: non vedere la malattia, la disabilità, ma la persona in sè. Alla fine, la cosa che mi ha lasciato di più il segno è stata proprio la capacità di quel luogo, e delle persone che ci lavorano, di non far risaltare i limiti delle persone, ma al contrario di cercare sempre una strada per evidenziare le potenzialità di ognuno. Mi sembra un po' lo spirito di questo articolo (http://invisibili.corriere.it/2012/03/14/se-la-coppia-e-diversa-l%E2%80%99amore-contrastato-fra-chi-e-disabile-e-chi-no/), anche se qui analizza un aspetto molto particolare -ma non per questo meno importante- del rapporto di coppia. Mi è capitato, avendo a che fare anche con ragazzi e ragazze giovani, o con coppie sposate da poco, di domandarmi, a volte immedesimandomi nella loro situazione, come sarebbe cambiato il loro rapporto con la sessualità, dal momento in cui una carrozzina si poteva mettere in mezzo. La risposta mi è arrivata poco tempo fa: una coppia che avevo conosciuto lì aspetta un bambino. E' stato proprio bello vedere che si può andare oltre, che le difficoltà si affrontano e si superano.
So molto bene che, per un lieto fine, purtroppo ce ne sono troppi non altrettanto fortunati, ma per oggi ho deciso che mi attacco al bello che c'è. E alla forza di certe persone, e di certe coppie, di non fermarsi alla disabilità ma di vedere nella diversità una ricchezza. Credo che abbia molta ragione Max Ulivieri, quando dice: "I nostri corpi sono un po’ come i quadri di Picasso. Non piacciono a tutti, per capirli bisogna avere occhi particolari". E quando li capisci, ti si apre un mondo.


sabato 10 marzo 2012

Quale "Scala" di valori?

Nelle ultime settimane ho seguito con parecchio interesse tutta la vicenda della ballerina Mariafrancesca Garritano, licenziata dalla Scala dopo che aveva raccontato il retroscena del corpo di ballo del teatro milanese. «Una danzatrice della Scala su cinque soffre di disturbi alimentari», ha detto la Garritano all'Observer prima, e ribadito alle "Iene" poi. La direzione della Scala si è sentita oltraggiata da queste dichiarazioni e l'ha licenziata.
In realtà, quando ho letto e ascoltato queste interviste non mi sono affatto stupita: preparando la tesi due anni fa, avevo già trovato alcuni articoli di riviste scientifiche che mettevano in luce proprio questo aspetto. La ompetitività, che aumenta man mano che si frequentano compagnie sempre più prestigiose, e la consapevolezza che si lavora in un mondo che richiede ogni giorno la perfezione del proprio corpo, o per lo meno ciò che più ci si avvicina, mette per forza di cose sotto pressione le ballerine (e i ballerini: i disturbi alimentari sono una realtà anche maschile, ma troppo spesso messa in secondo piano), che possono trovare rifugio in escamotage di diverso tipo per dimagrire o mantenere quella che viene loro imposta come forma fisica necessaria. In un articolo pubblicato sul Journal of psychosomatic research nel 2006, alcuni autori avevano messo in luce esattamente questo fattore: soprattutto in ragazze adolescenti o preadolescenti, che quindi hanno ancora una struttura fisica infantile (che per certi versi è proprio quella richiesta dalle scuole di danza), la pressione culturale e la preoccupazione per i propri risultati possono interferire con un corretto rapporto col proprio corpo, che in quelle fasi dello sviluppo comincia a modificarsi e ad assumere caratteristiche prettamente femminili.
Insomma, a tredici-quattordici anni la maggior parte delle ragazze ha un rapporto di amore e odio col proprio corpo: c'è il desiderio che maturi, ma contemporaneamente c'è anche l'incertezza dei cambiamenti, che spaventano. E poi, difficilmente ci si trasforma in modi che piacciono: "il seno è troppo grande o troppo piccolo", "ho le gambe troppo grosse", e così via. Non credo di aver mai conosciuto un'adolescente soddisfatta interamente del proprio aspetto fisico (e se devo dirla tutta, mi stupirebbe parecchio trovarne qualcuna). Se a questo aggiungiamo la pressione che può mettere addosso a una ragazzina una scuola di danza (ambiente competitivo per eccellenza, credo), di solito frequentata per passione, e quindi con ancora più impegno, il passo per arrivare a un rapporto conflittuale col cibo mi sembra molto breve.
E' altrettanto ovvio, immagino, che un teatro di così chiara fama come la Scala senta il dovere di tutelare la propria immagine, ma ciò non toglie che mi lasci l'amaro in bocca sapere del rifiuto così netto di affrontare un problema tanto grave come quello dei disturbi alimentari.
La danza classica è splendida, e può darsi che non sia adatta ad altre costituzioni se non quelle che siamo abituati a vedere, ma se ci si deve rimettere la salute (fisica e mentale), non so più se ne vale la pena.


mercoledì 7 marzo 2012

Alla ricerca della bellezza autentica

Oggi ho trovato su Repubblica.it un articolo dedicato alla realizzazione da parte dell'Onlus Donna Donna (www.donnadonnaonlus.org/) di un calendario di sensibilizzazione sui disturbi alimentari. Oltre al fattore estetico (le foto a me sembrano molto belle), è anche un bel gesto: il ricavato della vendita va a finanziare le attività dell'associazione.
Mi ha ricordato, per certi versi, la campagna di qualche anno fa della Dove, quella con lo slogan "per la bellezza autentica": donne piacevolmente e semplicemente normali, nè magrissime nè super truccate, che si facevano fotografare spogliate di vestiti e imbarazzi, senza preoccuparsi troppo di non assomigliare alle modelle che siamo ormai abituati a vedere in tv, sui cartelloni per strada e un po' ovunque. Mi ricordo che la prima volta che ho visto quelle foto ho avuto due pensieri contrastanti: da un lato, ero sorpresa e contenta di quell'iniziativa, mi piacevano l'idea e la realizzazione. Dall'altra, in un attimo ho realizzato come la mia percezione fosse ormai deformata dall'abitudine a modelle di tutt'altro genere, magre magre e senza un'imperfezione che sia una, al cui confronto, ovviamente, i normali difetti di ognuna di noi saltano all'occhio e ci trasformano in mostri inguardabili.
A riguardare a distanza di qualche tempo questa campagna pubblicitaria, mi passa per la testa un pensiero: ma ben vengano queste iniziative, che servano a ricordarci che un po' meno smania da fotoritocchi e un po' più di autoironia farebbero bene a tutti (me per prima!).


martedì 6 marzo 2012

In "medium" stat virtus?

Copio e incollo da una lettera trovata sul blog di Beppe Severgnini, Italians (http://italians.corriere.it/).

Basta con il ‘j’accuse’ delle taglie under 42!
Caro Beppe, non alimentare, con le tue giustificazioni, la declinazione più scontata del politically correct, ovvero il ‘j’accuse’ delle taglie under 42. Basta con l’ipocrisia di chi taccia le splendide silfidi della moda di icone demoniache del nostro tempo solo per invidia o consapevolezza di non poter mai assurgere a quei livelli di perfezione. Basta con l’ipocrisia del grasso (o sovrappeso) è bello, perchè grasso (o sovrappeso) fa male, ed è anche oscenamente brutto: a parte la salute, che è un problema di chi vuol prendere chili, mi preoccupo del sacrificio di chi mi costringe a sporcarmi gli occhi con la vista del brutto. Del resto come diceva Dovstoevskij, ‘la bellezza salverà il mondo’. A parte le provocazioni, ma quale dev’essere l’esempio in una società che si nutre di relativismo in ogni campo? ‘Ma si’, mangia pure cioccolata e patatine che tanto qualche chilo in più non fa male’. Personalmente frequento una bellissima ragazza taglia 38, 175 cm per 46 kg: ha una linea stupenda e vorrei che mia figlia, se e quando ne avrò una, si faccia scrupoli di fronte ad un hamburger avendo lei come modello, piuttosto che faccia spallucce dietro consiglio di uno dei tanti genitori ossessionati dall’ipocondria dell’anoressia e per questo fautori di un ‘laissez faire’ alimentare che fa più vittime dell’anoressia stessa.

Non so da dove cominciare. Forse dal far notare a questo signore che i 46 kg per 1.75 della sua compagna non sono molti. Ma questo, in effetti, vuol dire poco. Mi preoccupa molto di più la sua impostazione mentale: "grasso (o sovrappeso) fa male, ed è anche oscenamente brutto". Ora, lungi da me dire che fa bene un eccessivo sovrappeso, per non parlare dell'obesità: è un fatto certo che ne conseguono molti problemi, assai noti. Ma non credo che educare una figlia (che -per fortuna- questo signore ancora non ha) alla paura verso il cibo e verso il peso corporeo sia una mossa vincente. Succede già di natura che, soprattutto arrivate a una certa età, la maggior parte delle ragazze comincino a porsi problemi sul proprio aspetto fisico, senza che un genitore (o peggio, due) ci debba aggiungere del suo. Io mi preoccupo non tanto de "l’ipocondria dell’anoressia" quanto del pericolo opposto, quello di tanti genitori che, non essendo riusciti a raggiungere il LORO ideale di perfezione, spesso lo proiettano sui figli, scaricando su di loro frustrazioni e sogni infranti.
Senza contare il fatto che le taglie cambiano, l'aspetto fisico si modifica, ma le ferite dell'autostima si rimarginano con molta più difficoltà.



lunedì 5 marzo 2012

Grassi CONTRO magri?

Stasera ho provato a guardare il nuovo programma di Real Time, Grassi contro magri. Incuriosita dalla pubblicità, che prometteva una trasmissione sui disturbi alimentari, mi sono lasciata tentare. Ora provo sensazioni contrastanti. Da un lato, mi rendo conto che è puro intrattenimento, non si tratta certo di un programma scientifico e non ha la pretesa di esserlo. Dall'altra, mi preoccupa parecchio la confusione che può generare un'informazione così limitata. Voglio dire: la prima parte è stata dedicata alla documentazione dello scambio di dieta tra una signora quarantenne, a cui il "dottor Christian Jessen" diagnostica un'obesità grave, e un ragazzo di circa 25 anni, che pesa un cinquantina di kg. Uno scambio di dieta. Tra una persona che assume 4000 calorie al giorno e un'altra che ne assume circa un migliaio. La domanda che mi sorge spontanea è: ma perchè? Che cosa se ne può ricavare di buono, a parte la spettacolarizzazione della fame di una e della nausea dell'altro? Sinceramente mi è sembrato un vero e proprio circo. I disturbi alimentari sono un problema molto diffuso, ma sono anche un argomento estremamente delicato da trattare. Il cibo è il sintomo del disagio, la punta dell'iceberg. Limitarsi a togliere cibo a una e fare ingozzare l'altro mi sembra inutile e dannoso.
La seconda parte (e poi, lo ammetto, ho spento la tv) era dedicata invece alla presentazione di tre ragazze con tre diversi disturbi alimentari. Ho apprezzato la descrizione (anche se abbastanza sommaria) delle differenze, compresi i sottotipi dell'anoressia, ma non è bastato a farmi rimanere lì a guardare. Ripeto: probabilmente l'intento non era quello di dare un taglio particolarmente scientifico al programma, ma non mi è piaciuta questa sorta di voyeurismo mascherato da informazione. E poi, il titolo: "grassi contro magri" (e l'originale per me è ancora peggio:"supersize vs superskinny"); come se fosse una gara, una lotta, come se ci fosse un merito da una parte e un torto dall'altra. Come se non fossero già abbastanza le fonti di fraintendimento in questo senso.
Ho l'impressione che la strada da fare, per raggiungere un'informazione un po' meno spettacolare -ma non per questo meno coinvolgente- sia ancora tanta.