"Bisogna tenere duro, tenere duro comunque, con le unghie e con i denti". (D. Pennac)

giovedì 23 giugno 2016

Rotolini (che fa rima con bikini)

Ogni tanto torno a scrivere. Non spesso, perchè aspetto di avere qualcosa di davvero importante da comunicare, e poi voglio metterlo giù bene, e non è mai abbastanza "bene". E finisce che rimando per secoli. Ma qualche giorno fa ho letto sul blog di un'amica un post che mi ha fatto riflettere. Soprattutto perchè ero d'accordo praticamente su tutto, e l'avrei voluto condividere, ma non ne ho avuto il coraggio. Questo dimostra quanto mi sento a mio agio col mio corpo: rasentiamo lo zero.
I mesi della gravidanza sono stati un paradiso: avevo messo su pochissimi chili, anzi inizialmente ne avevo anche persi alcuni, mi sentivo finalmente uguale alle altre donne nella mia condizione: avevo la panza, ma perchè ospitava un bagaglino bellissimo, non perchè mangiassi troppa cioccolata. Ma una volta nata Lea, le sensazioni di prima sono tornate con gli interessi. Per due motivi fondamentali: il primo è che una gravidanza, per quanto una ci stia attenta, ti modifica corpo e spirito; dopo, non ti senti più uguale a prima, è impossibile. E alla prima prova costume, se la tua autostima non è al 100%, è difficile non avere anche solo un attimo di sconforto.
Il secondo lo vado a ripescare nell'adolescenza. Nelle prese in giro, nelle battutine del prof di ginnastica, nei "stai zitta, balena!" quando riuscivo a rispondere a tono, nell'imbarazzo a pensare a bikini e giornate al mare con gli amici. Certe cicatrici rimangono a lungo, a volte sembrano essere sparite e invece tornano a farsi sentire quando meno te lo aspetti, come quando cambia il tempo e ti fa male il taglio dell'appendicite. Bisogna avere molta forza di volontà per decidere che non devi dirti "vai bene anche così", ma che vai bene proprio così. Quel preciso rotolino, quel punto con la cellulite, quelle gambe più grosse di quanto le vorresti, sono caratteristiche tue. Perchè forse il segreto non sta tanto nel trovare il modo giusto per dimagrire/rassodare/piacersi di più: cioè, se è questo che fa stare meglio, è un'ottima cosa, ovviamente. Ma credo che in certi casi sia altrettanto importante, a volte anche più importante, essere capaci di dirsi "io sono fatta così. Posso migliorarmi, se è questo che voglio, ma prima di tutto devo imparare a volermi bene così come sono". Perchè tutte quelle battute, quelle prese in giro, quei sorrisini, sono ancora lì a far male perchè ce li abbiamo lasciati noi, perchè gli abbiamo consentito di farci del male.
E se io posso dimagrire, per l'idiozia di certe persone non sono certa ci sia una cura...
Fermo restando che io, quest'estate, cercherò di indossare il mio sorriso migliore, un bikini che mi faccia sentire bene (o almeno al mio meglio), e porterò in spiaggia a giocare la mia pancia - decisamente più morbida di un anno fa - e la ragione di tanta morbidezza.

sabato 31 agosto 2013

l'estate sta finendo

Ultime ore dell'ultimo giorno di mare. Quel mare che per anni ho snobbato, preda di ricordi d'infanzia poco felici, forse a volte anche un po' esasperati dal mio volerli rivivere a tutti i costi. 
Per anni ho scelto di non tornarci, in quella casina che da piccola sentivo troppo stretta rispetto a quella di montagna, enorme e con mille segreti. Quella casina che aveva angoli che mi spaventavano, ma non potevo dirlo a nessuno perchè mi avrebbero preso in giro. Poi pian piano il processo di assoluzione nei confronti di un luogo che non ha colpe è iniziato, e - complice la necessità di risparmiare un po' - venire qui due settimane all'anno è diventato prima una cosa ovvia, che sai che accadrà perchè non hai molta scelta, poi senza volerlo anche un piacere. Perchè, volente o nolente, qualche bel ricordo alla fine affiora (mia sorella Laura che di nascosto dalla nonna mi cura le sbucciature sulle ginocchia perchè sono caduta dalla bici provando a pedalare da in piedi, i bomboloni e la crescente, i bagni senza andare troppo al largo perchè la nonna non voleva...), e anche se è intervallato da altri che fanno ancora male, alla fine un sorriso salta sempre fuori.
E poi, in questi anni, ho trovato nuovi punti di riferimento, solo miei. E poi, va a finire che non riesco a non pensare a se e quando avrò io un bimbo da far giocare a riva. 
Insomma, anche queste vacanze sono finite, quest'anno con un sapore nostalgico più forte del solito. Al "voglio torna' bambino", però, stavolta si mescola una nuova voglia di crescere: con le mie ingenuità, le mie illusioni e i miei sogni ad occhi aperti, che mi fanno restare sempre un po' bimba dentro. 
Ma è ora di tornare a casa, alla mia vita da adult-in-progress, a cercare di guadagnare qualche altro metro sulla strada verso la vita che vorrei per me. E se questo significa tirare fuori scheletri dagli armadi e smettere di torturare certe ferite per lasciarle guarire, va bene. Forse questa volta sono pronta.

mercoledì 8 maggio 2013

I muffin sono quasi sempre la risposta al malumore.

In giornate come quella dell'altro giorno, piovose fuori e piene di inconvenienti più o meno gravi, il mio bisogno di sfogarmi in cucina diventa impellente. Quando ho mille pensieri per la testa, e sono preda di un'irritazione non sfogabile contro chi ne è la causa, la cosa ideale sono i muffin.
I miei preferiti sono quelli rubati alla Parodi, ricetta di un'ospite del suo programma: cioccolatosissimi e molto coccolosi da mangiare, danno una gran soddisfazione da cucinare, perchè mi sono venuti al primo colpo e ormai l'unica cosa da migliorare è l'estetica.
Questa volta però avevo voglia di lanciarmi in un esperimento (si vede che i pensieri sono parecchio ingombranti e ho bisogno di concentrarmi per bene su altro..!), quindi ho deciso di tentarne di nuovi.. Non proprio ipocalorici, ma di grande soddisfazione per il gusto. Meno per la vista, perchè in effetti i primi mi sono venuti abbastanza bruttoni: non si erano gonfiati granchè, e il mio umore stava già ulteriormente precipitando. Con il secondo e terzo round invece è andata un po' meglio, per fortuna, forse grazie alla modifica della ricetta in corso d'opera!
Alla fine hanno avuto un grande effetto terapeutico: avevo la testa affollata da pensieri e problemi non risolvibili nè nell'immediato nè solo con il mio intervento; questo era fonte di una frustrazione incredibile: voler fare qualcosa e non potere è insopportabile. Essermi accorta a metà procedimento che la ricetta non stava riuscendo come doveva, fermarmi a riflettere e tentare una soluzione, che poi si è rivelata corretta, mi ha dato una grandissima soddisfazione, facendomi accantonare gli altri guai.
Comunque, ecco il procedimento per questi MUFFIN CON GOCCE DI CIOCCOLATA E GLASSA DI CIOCCOLATO AL LATTE, che nascono in realtà dalla ricetta di una ciambella con gocce di cioccolata, e quindi risultano ben più leggeri dei soliti: non contengono burro nè olio, per esempio, ed è già un ottimo inizio!
Ingredienti per i muffin: 300 gr di ricotta, 300 gr di farina, 200 gr di zucchero, 1 bustina di lievito, 1 uovo (per me sono diventate 2), 125 gr di gocce di cioccolato.
Per la copertura: 150 gr di cioccolato al latte, 50 ml di panna fresca.
Prima di tutto ho sciolto la cioccolata con la panna, in modo che poi avesse il tempo di raffreddarsi. Per l'impasto, la ricetta prevede semplicemente di unire in una terrina tutti gli ingredienti ed amalgamare bene, "finchè l'impasto non risulta soffice". Ecco, io a questo punto mica ci sono arrivata.. Con le dosi qui sopra, mi sono ritrovata una ciotola piena di un miscuglio un po' sabbioso, a cui comunque -impavida- ho aggiunto le gocce di cioccolata. A questo punto, nonostante i presupposti non fossero i migliori, ho comunque tentato la prima infornata (e forse ci si spiega la bruttezza dei primi sei nati). Poco convinta, ho aggiunto un uovo al restante impasto e -MAGIA!- tutt'un altro affare: impasto morbido e soffice, e seconda + terza infornata lievitate (un po' come il mio morale, nel frattempo).
Li ho lasciati raffreddare un pochino e li ho coperti con la glassa, usando una siringa (ho scoperto che la sac à poche non fa per me: mi si affloscia mentre la riempio, mi esce il ripieno, mi si intasa la punta.. con la siringa è proprio molto più facile, per me). Per ultimo, li ho coperti di tutti quei bagagli colorati che mi piacciono da matti (e il cui nome credo sia codette, o palline.. non bagagli, temo.)
Ora, buoni son buoni. Come dicevo all'inizio, devo decisamente migliorare sull'estetica.. Però come primo tentativo non mi dispiace.. e soprattutto, il mio malumore è decisamente migliorato.


lunedì 29 aprile 2013

Cucina terapeutica

E' davvero tanto che non aggiorno il blog. Sarà che i consigli che ti danno da piccola rimangono ben piantati in mente, e quello di mia mamma "se non ha niente di intelligente o carino da dire, piuttosto stai zitta" si è radicato per bene. Fatto sta che non trovavo mai argomenti abbastanza validi per scrivere.
Poi, più d'una persona mi ha dato l'idea di aggiungere al blog una nuova categoria, un argomento che mi appassiona e mi diverte quasi quanto la psicologia, ovvero la cucina.

E' da quando ero piccola che pasticcio tra i fornelli: prima guardavo mia mamma, poi la aiutavo (più che altro, a pulire i tegami dei dolci!), poi ho cominciato - un po' per necessità, poi man mano con vero piacere - a cimentarmi in piatti diversi.
Oggi, cucinare è una dei momenti che mi rimettono a posto col mondo e con me stessa. Credo, in questo, di aver imparato molto da mia mamma. Mi ricordo quando capitava che fosse di cattivo umore, o semplicemente pensierosa, e diceva: "ho bisogno di fare il pane". All'epoca non capivo il fascino che si celava in questo processo, e rimanevo un po' perplessa. Poi, andando a vivere con qualcun'altro, ho scoperto il vero piacere che mi suscita cucinare per gli altri: la lieve tensione nel provare una ricetta nuova, senza sapere come verrà; sbirciare l'espressione dei commensali per scoprire se piace o no; scoprirmi ogni volta contenta nell'assaggiare il piatto e rendermi conto che è buono.

C'è poco da fare, amo il buon cibo. Mi piace assaggiare piatti nuovi, mi piace riscoprire vecchi sapori, e mi piace cucinare. E dopo anni in cui questo mi faceva sentire in colpa (quasi come se la cosa giusta fosse vivere d'aria, quasi come se mangiare e dire a voce alta che mi piace fosse sconveniente), ho deciso che se una cosa mi fa stare bene, e non è illegale, non è sano togliermela. Ovvio, questo implica una perenne ricerca di un equilibrio tra gusto e apporto calorico non eccessivo, ma ne sono consapevole.
E poi, amo proprio il processo. Amo sporcarmi le mani, amo i profumi diversi che si legano insieme, amo vedere gli ingredienti che, da separati, si amalgamano e si fondono e creano qualcosa di nuovo. E soprattutto, amo il fatto che determinati piatti saranno sempre legati ad alcuni ricordi. Ad esempio, il profumo di caffè sarà sempre odore di risveglio a casa dei miei, la mattina. E l'odore del budino al cioccolato mi riporterà sempre alla memoria mia nonna.

Quindi, dato che ormai è noto a chi mi conosce che io cucino determinati piatti in base al mio umore, ho deciso che un nuovo tema del blog saranno le psico-ricette: cominciamo proprio con uno dei dolci-da-nostalgia-di-casa... Il BUDINO DELLA NONNA LEA.
Le dosi sono la cosa più facile del mondo: 1 etto di farina, 1 etto di zucchero, 1 etto di burro, 1 etto di cacao (amaro per le persone normali, zuccherato per i golosi irrecuperabili come me), 1 litro di latte.
Il procedimento è sostanzialmente quello per fare la besciamella: si scalda il latte in un pentolino, e lo si porta a bollore. Nel frattempo si tosta la farina nel burro fuso, finchè non formano un'unica palla. A questo punto si aggiunge, un mestolo alla volta, il latte caldo, mescolando con cura per evitare che si formino i grumi di farina. Finito di aggiungere il latte, si aggiunge lo zucchero, sempre mescolando, e il cacao (se si vuole essere proprio bravi bravi, setecciandolo... io non lo faccio mai: o me ne dimentico, o non ne ho voglia). Si aspetta che prenda il bollore, sempre mescolando, e lo si versa in uno stampo o nelle coppette.
La parte migliore rimane sempre pulire il tegame... E riassaporare alla prima cucchiaiata il profumo di nonna (e di mamma) che mi riempie pancia, naso e cuore.


martedì 28 agosto 2012

Pensieri di un pomeriggio di fine estate

Foto delle vacanze, i soliti servizi dei tg sulle temperature che si abbassano, status che trasudano malinconia nel rientro in città e al lavoro. Ci sono tutti gli ingredienti per decretare l'ormai imminente fine dell'estate.
Con la differenza, per me, che quest'anno non mi mancherà granchè.
Un annetto fa salutavo un'amica che partiva, pensando che presto sarei andata a trovarla.
Un annetto fa mi trasferivo in una nuova casa, in una nuova città, in una nuova vita, piena di speranze e di paure, emozionata, stranita al massimo.
Un anno fa due amici si sposavano, e oggi hanno un bimbo.
In quest'anno si sono viste certezze che hanno scricchiolato e poi sono crollate; altre che si sono consolidate proprio grazie alle difficoltà; amicizie nuove che mi hanno stupito e tenuto a galla; amicizie di lunga data che si sono confermate quello che sono sempre state, indispensabili, nonostante la lontananza; una palla di pelo accolta in casa del tutto all'improvviso, la decisione migliore che potessimo prendere, la prima, vera decisione presa in due.
Per la prima volta la fine dell'estate porta con sè pochissima malinconia, forse per la voglia di cambiare le cose, e per la speranza che l'autunno me ne dia la possibilità. Ricominciare a studiare, farlo con un'amica, sapendo che è un altro passo verso quello che vorrei, prima o poi, riuscire a fare.
E ritrovarsi a pensare ad altre coppie di amici che realizzano i loro sogni, che progettano una vita insieme, che mi fanno pensare "è per persone come loro che continuo ad essere fiduciosa".
Oggi più che mai è tutto nebulosissimo. Ma, almeno per oggi, voglio godermi quella piccolissima dose di ottimismo che ancora c'è in me, allungare la mano, fare due carezze al gatto che dorme di fianco a me e pensare solo al suono delle sue fusa.



venerdì 6 luglio 2012

"Se ti abbraccio non aver paura"

Lunga assenza dal blog, ma continuo a far tesoro di uno dei tanti insegnamenti di mia mamma: se non hai niente di interessante da dire, non parlare. E quindi... Però ho finito questo libro, che mi è piacuto un bel po' e che volevo condividere. Come la maggior parte delle mie letture non tratta un argomento leggero, ma che io abbia "un elevato peso specifico" è noto ai più. Ho letto l'ultima pagina qualche giorno fa, e ho avuto bisogno di un momento per lasciarlo sedimentare, per separarmi dalla storia e dai protagonisti, soprattutto perchè è una storia vera. Magari un po' romanzata, ma vera.
Come tanti, ho visto il servizio su Andrea alle Iene, qualche mese fa. Pare che a metà servizio io fossi a 20 cm dalla tv con gli occhi lucidi e un sorriso da ebete: in effetti, la storia di questo ragazzo e di suo padre mi aveva coinvolto moltissimo, forse perchè mi ricordava in tanti suoi comportamenti un ragazzo che ho conosciuto un annetto fa durante il tirocinio. Insomma, alla fine ho trovato il libro su uno scaffale in un negozio e mi sono decisa a comprarlo. La trama è sostanzialmente il racconto di un viaggio attraverso l'America di un padre col figlio diciottenne, a cui all'età di 3 anni è stato diagnosticato l'autismo. La parte interessante, però, credo che siano più che altro i dettagli, i frammenti di vita quotidiana che emergono dalle varie vicende e il rapporto tra Andrea e suo padre.
Di questa patologia non si sa granchè, io per prima ne so davvero poco. Quel che ho potuto capire, più che altro dalla conoscenza diretta di alcune persone con questa caratteristica, è che il termine esatto, ovvero "spettro dell'autismo", è perfettamente calzante: la varietà di sintomi e di manifestazioni esteriori è davvero grande, tant'è che alcuni comportamenti di Andrea mi ricordano quelli di un ragazzo psicotico più che quelli a cui siamo abituati a pensare. Temo che il film Rain Man abbia una parte di responsabilità, in questo: sentendo la parola autistico la maggior parte di noi pensa in automatico a Dustin Hoffman e alla scena degli stuzzicadenti nel bar. Ecco, non è esattamente così, o meglio, non è così per tutti. All'interno dello spettro autistico rientrano una gran quantità di fattori, tanto che -a voler esagerare- si potrebbe dire che ne facciamo parte un po' tutti, in qualche modo; anche per questo formulare una diagnosi non è mai facile.
La cosa che mi ha colpito di più, comunque, della storia di Andrea sono stati tutti gli interrogativi messi sul tavolo dal padre, Franco. Interrogativi che tendiamo spesso a non porci, concentrandoci sul cercare una diagnosi prima e una cura poi, ma che sono in realtà di estrema importanza.
La sessualità, le manifestazioni di affetto: molti medici hanno detto a Franco che suo figlio, come la maggior parte dei soggetti affetti da autismo, non proverà grande interesse per questa sfera. In realtà, per Andrea non è esattamente così: lo esterna a modo suo, ma l'interesse c'è, cosicchè il padre si trova a dover affrontare un argomento delicato a prescindere, cercando di trovare le parole e i gesti adatti. Perchè, giustamente, ignorare la questione sarebbe inutile se non dannoso.
L'altra grande questione che mi ha turbato è stato l'enorme punto interrogativo sul futuro. Franco si domanda cosa succederà quando lui e la mamma di Andrea non ci saranno più, o non saranno comunque più in grado di stargli dietro. Nell'esperienza che ho avuto con i vari tipi di disabilità, questo è sicuramente il comune denominatore: la paura che prende quando si comincia a immaginare quali prospettive ci possono essere per una persona che dipende interamente da noi, e che non ha prospettive di miglioramento, deve essere davvero profonda. E soluzioni facili, come sempre in questi casi, non ce ne sono.
Questo libro non dà risposte, più che altro a me ha fatto sorgere ancora nuove domande. Ma credo che sia la caratteristica che lo distingue da una favola. Andrea e Franco continuano la loro vita, con i loro rituali e i loro momenti duri: Andrea continua a ridurre in pezzetti microscopici i fogli di carta, quando è nervoso e non si sente a suo agio, e a toccare le pance agli sconosciuti incontrati per caso. Ma ti fa anche capire che oltre la difficoltà di comunicare in modo canonico, c'è un mondo da scoprire, se ci si prova.
"Provo ad impegnare mia mente ogni giorno ma lotto invano mi dispero per mio autismo
Aiuto chiedo"
"Sono un uomo imprigionato nei pensieri di libertà.
Andrea vuole guarire.
Ciao"

domenica 27 maggio 2012

Gli imprevisti e il lusso del potervi far fronte.

Non so neanch'io qual è stato il primo pensiero che mi è passato per la mente quando ho letto le parole che aveva pronunciato Elsa Fornero riguardo all'assistenza alle persone disabili. Già partire dal presupposto difensivo che "non si può pensare che lo Stato sia in grado di fornire tutto in termini di trasferimenti e servizi" non mi pare un gran bell'inizio. Voglio dire, fossimo negli Stati Uniti, dove la sanità è privata, potrei vedere una logica in questo discorso, ma il ministro mi perdonerà se qui io questa logica proprio non la vedo. Chi dovrebbe essere in grado, allora, di aiutarci? Continua poi con una dichiarazione che mi lascia assai perplessa: "Sia il privato che lavora per il profitto sia il volontariato no profit sono necessari per superare i vincoli di risorse. Il privato, in più del pubblico, possiede anche la creatività per innovare e per creare prodotti che aiutino i disabili". Esattamente, vorrei capire da dove ha preso questa convinzione, pesante come una pietra tombale peraltro. In base a quali criteri il privato ha più creatività del pubblico? Risorse, forse sì, ma creatività? Chi stabilisce quanto e come un'organizzazione sia creativa?
Oltre a tutto questo, il mio pensiero è corso istintivamente all'associazione di cui ho fatto parte per tanti anni, "Gli amici di Luca", che ha trovato il modo di affiancare, con una sinergia incredibile, volontari e dipendenti (in parte pubblici, sotto l'ASL di Bologna, in parte dell'associazione), in un progetto che -per quanto sembrasse ambizioso all'inizio- ha saputo crescere e aiutare decine e decine di famiglie, ovvero la Casa dei Risvegli. E, da volontaria, credo che -senza nulla togliere alla passione di chi ci lavora ogni giorno- chi decide di dedicare parte del proprio tempo libero ad attività come queste, regali una forza e una voglia di fare che diventano risorse insostituibili, spesso proprio perchè slegate dall'ottica del guadagno a sè stante.
Al di là di queste considerazioni, puramente personali, mi trovo comunque a riflettere su tutte quelle famiglie che si prendono cura di un parente con disabilità ed esigenze particolari, che spesso richiedono una quantità di tempo e denaro non sempre disponibili. Secondo la logica del Ministro, a chi dovrebbero rivoglersi? "il ruolo pubblico dovrebbe dare credibilità inserendosi nella relazione tra la persona e il mondo assicurativo". In sostanza, o ci si può permettere una copertura assicurativa o niente, lo Stato non può più permettersi di spendere soldi in questi progetti, è questo il succo del discorso?
Ho cercato un'altra chiave di lettura, ma non l'ho trovata, anzi; mi sono sembrate parole terribilmente simili, come impatto, al decreto approvato da Monti giusto un paio di giorni prima del terremoto in Emilia, suonato come una drammatica previsione: "In caso di terremoto, alluvione, o di ogni altra catastrofe naturale, lo Stato non pagherà più i danni ai cittadini. Che, dunque, per vedere la casa o l'azienda ricostruita, avranno una sola strada: ricorrere all'assicurazione 'volontaria' ".
Due notizie diverse sotto tanti aspetti, ma accomunate dalla mia impressione di fondo che neanche questo governo sia in realtà minimamente interessato a chi vive in questo paese. Persone normali, con piccole e grandi tragedie quotidiane, che si sono trovate davanti a degli imprevisti, nella loro vita, e che ora non sanno più come far fronte alla richiesta di un altro piccolo sacrificio. Perchè non ce n'è più, da dare, e non voglio credere che la possibilità di reagire e poter affrontare la disabilità (o le catastrofi) sia diventato un lusso per pochi.